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]]>A sua volta, anche l’obbligazione del medico dipendente dall’ente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ma sul contatto sociale, ha natura contrattuale.
In ogni caso, in ipotesi di responsabilità da intervento effettuato da medico dipendente da struttura sanitaria pubblica o privata, trova applicazione la disciplina dettata dall’art. 1218 c.c, e segg., sia nei confronti di quest’ultima, sia nei confronti del medico.
Pertanto, in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c., il paziente – creditore ha il mero onere di allegare il contratto ed il relativo inadempimento o inesatto adempimento, non essendo tenuto a provare la colpa del medico e/o della struttura sanitaria e la relativa gravità.
Al debitore, invece, presunta la colpa, incombe l’onere di provare che l’inesattezza della prestazione dipende da causa a lui non imputabile; la prova, cioè, del fatto impeditivo, in difetto della quale – secondo le regole generali degli artt. 1218 e 2697 c.c. – egli soccombe.
E la ragione è da ricercarsi nella maggiore possibilità per il debitore (medico) onerato di fornire la prova, in quanto rientrante nella sua sfera di dominio, in misura tanto più marcata quanto più l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche sconosciute al creditore, essendo estranee alla comune esperienza, e viceversa proprie del bagaglio del debitore.
Ciò che avviene nell’esecuzione di una professione protetta. In sostanza, opera il principio di c.d. vicinanza alla prova o di riferibilità.
Il medico è in particolare tenuto ad una prestazione improntata alla diligenza professionale qualificata dalla specifica attività esercitata ex art. 1176 c.c., comma 2 e art. 2236 c.c., nel cui ambito va distinta una diligenza professionale generica e una diligenza variamente qualificata, giacché chi assume un’obbligazione nella qualità di specialista, o un’obbligazione che presuppone una tale qualità, è tenuto alla perizia che è normale della categoria.
Lo specifico settore di competenza in cui rientra l’attività esercitata richiede infatti la specifica conoscenza ed applicazione delle cognizioni tecniche che sono tipiche dell’attività necessaria per l’esecuzione dell’attività professionale.
I limiti di tale responsabilità sono quelli generali in tema di responsabilità contrattuale, presupponendo questa l’esistenza della colpa lieve del debitore, e cioè il difetto dell’ordinaria diligenza.
A tal fine, il criterio della normalità va valutato con riferimento alla diligenza media richiesta, ai sensi dell’art. 1176 c.c., comma 2, avuto riguardo alla specifica natura e alle peculiarità dell’attività esercitata.
La condotta del medico specialista va, poi, esaminata con maggior rigore ai fini della responsabilità professionale, dovendo aversi riguardo alla peculiare specializzazione e alla necessità di adeguare la condotta alla natura ed al livello di pericolosità della prestazione.
In presenza di contratto di spedalità, la responsabilità della struttura ha natura contrattuale, sia in relazione a fatti d’inadempimento propri, sia per quanto concerne il comportamento dei medici dipendenti, a norma dell’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, ancorché non alle sue dipendenze, risponde anche dei fatti dolosi o colposi dei medesimi.
A questi fini è sufficiente che la struttura sanitaria comunque si avvalga dell’opera di un medico.
Né ad escludere tale responsabilità è idonea la circostanza che ad eseguire l’intervento sia un medico di fiducia del paziente, sempre che la scelta cada (anche tacitamente) su professionista inserito nella struttura sanitaria, giacché la scelta del paziente risulta in tale ipotesi operata pur sempre nell’ambito di quella più generale ed a monte effettuata dalla struttura sanitaria, come del pari irrilevante è che la scelta venga fatta dalla struttura sanitaria con (anche tacito) consenso del paziente.
Inoltre, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, 5 novembre 2013 n. 24801
]]>Doppia prova a carico del medico accusato di inadempimento: deve dimostrare sia di avere assolto in modo esatto l’obbligazione sanitaria, sia di avere osservato i doveri informativi. Il paziente, infatti, deve solo provare l’esistenza del contratto e allegare un inadempimento qualificato, idoneo a produrre l’evento dannoso. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 24109 del 2013.
Ad aprire la questione, la citazione in giudizio promossa da una coppia, nei confronti di un istituto di ricovero dove la donna aveva partorito, con taglio cesareo, il suo terzo bambino. In quell’occasione i sanitari le consigliano di procedere alla sterilizzazione chirurgica per evitare altre e indesiderate gravidanze. La signora si sottopone all’intervento ma, a distanza di qualche mese, resta nuovamente incinta di due gemelli, dato che, dopo l’intervento, non ha adottato alcuna precauzione. Di qui l’azione per responsabilità medica, visto il disagio, anche economico, dovuto alla crescita della famiglia e alla decisione della donna, divenuta necessaria, di lasciare il lavoro.
La domanda viene respinta dai giudici di merito e la coppia fa quindi ricorso per Cassazione. I giudici di appello – si legge nel ricorso – hanno bocciato la pretesa ritenendo che la donna non abbia provato il contenuto dell’obbligazione. Ma in realtà, afferma il legale della donna, è a carico dei sanitari dimostrare che il danno era dipeso da un evento imprevisto e imprevedibile. È stato violato, inoltre, l’obbligo informativo circa la possibilità che la sterilizzazione potesse avere esito negativo.
La Cassazione concorda. Il mancato raggiungimento del risultato – spiega la Corte – determina l’inadempimento quando deriva da una «non diligente prestazione» o da una «colpevole omissione dell’attività sanitaria». Inoltre, «l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) consiste nell’aver tenuto un comportamento non conforme alla diligenza richiesta, non solo con riguardo alla corretta esecuzione della prestazione sanitaria ma anche con riferimento a quei doveri di informazione e di avviso, definiti prodromici e integrativi dell’obbligo primario della prestazione».
Le ragioni dei coniugi, pertanto, sono fondate. Infatti, precisa la sentenza, rientra tra le comuni conoscenze di un ginecologo (ma non anche di una paziente) che la legatura delle tube eseguita in occasione di un parto cesareo non assicura l’irreversibilità della sterilizzazione. Di conseguenza, l’informativa dei sanitari non doveva esaurirsi in notizie generiche sull’operazione, ma doveva investire – visto l’obiettivo perseguito dalla donna – «i profili di incertezza» della sua definitività. Ai coniugi, invece, è stato fatto sottoscrivere un modulo nel quale sono stati informati «dell’irreversibilità del l’intervento». Un’informativa, afferma la Cassazione, non solo «inesatta» ma anche «fuorviante», tanto da «incidere in maniera determinante sul valido e corretto processo formativo della volontà» della coppia in relazione alla scelta del momento, e del contesto operatorio, in cui eseguire l’intervento.
Del resto, la Corte d’appello non ha accertato l’assolvimento del dovere d’informazione, ma si è limitata a sostenere che la notizia corretta sulla possibilità d’insuccesso «potrebbe esserci stata», senza chiarire però da quali elementi avesse tratto tale ipotesi e per quale ragione questi elementi avessero valenza probatoria. I giudici di legittimità cassano quindi la sentenza, con rinvio per un più approfondito esame del caso.
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